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Distruzione dell'Università italiana: parliamo di come ricostruirla?

Come sapete dalla sezione “about us”, siamo tutti fisici, almeno come formazione. Qualcuno di noi ha felicemente mollato l’accademia, altri sono nel limbo del lascio-non lascio, la maggioranza siamo presi nel turbine di applications, grant proposals, e sballottamento da una parte all’altra del mondo che questa fase convulsa della carriera accademica richiede. Non ci lamentiamo, almeno ci proviamo: sappiamo che rimanere in accademia è difficile, comporta sacrifici che non tutti sono disposti ad accettare (primo fra tutti, probabilmente, il non-controllo sulla propria geolocalizzazione), e implica accettare (e superare…) una competizione sfrenata per i pochi posti disponibili. Se fossi il Giambo, potrei iniziare una discussione sull’utilità di questo sistema individual-capitalistico e sulle sue contraddizioni. Invece sono Maik, che accetta il sistema (nessuno mi costringe, in fondo), e che però quando si parla di Università italiana s’incazza di brutto. 

Occasione dell’incazzatura, stavolta, è un articolo apparso sul “Fatto Quotidiano” la settimana scorsa. L'autore si lamenta della condizione in cui versa il sistema universitario italiano, che ha subito un ridimensionamento cospicuo in termini di risorse umane e finanziarie negli ultimi dieci anni. Facciamo un breve riassunto, per chi fosse appena atterrato da Marte. Con il blocco del turn over e degli stipendi, unito alla cronica mancanza di finanziamenti per la ricerca, l'intero sistema è in sofferenza profonda. Il blocco del turn over impedisce di rimpiazzare i pensionamenti, e i precari si ammassano in attesa di poter entrare in ruolo stabilmente, generando un effetto imbuto. Il blocco degli scatti automatici stipendiali (ripristinati nel 2015, e oggetto del recente sciopero dei docenti, che mirava a recuperare gli scatti perduti) è stato un problema soprattutto per i giovani, che iniziano il percorso lavorativo con stipendi molto bassi e hanno perso molto più dei colleghi anziani, già che gli scatti perduti non saranno rivalutati in futuro. Va detto che in termini assoluti la retribuzione lorda dei professori universitari non è per niente disprezzabile, se comparata con il reddito medio italiano. Questa media, però, è ingannevole: è necessario distinguere tra soggetti a fine carriera, che hanno raggiunto ottimi livelli stipendiali, e quelli a inizio carriera, che quei livelli probabilmente non li vedranno mai. Molti dei pensionandi odierni, infatti, sono entrati in ruolo giovani, in una fase di espansione per certi versi poco controllata del sistema universitario negli anni ’80 (la famosa ope legis). Il blocco del turn over ha prodotto una netta diminuzione del numero dei docenti, calati di un 20% in dieci anni, con effetti negativi sulla qualità della didattica. Per quanto riguarda la ricerca, la situazione è ancora peggiore. I progetti di ricerca si basano ormai esclusivamente su finanziamenti europei, già che i fondi nazionali sono ridotti al minimo. I fondi allocati per i PRIN, i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, sono passati da quasi 90 milioni annui nel 2012 a 38 milioni nel 2013, validi pero' per un triennio. Insomma, e' un disastro.

Una piccola parentesi. In mezzo a questo disastro, ci siamo noi: giovani ricercatori emigrati. Il flusso di ricercatori che emigrano dall'Italia e approdano all'estero è così cospicuo ed in aumento che è quasi diventato imbarazzante. Imbarazzante per noi stessi voglio dire, che ci ritroviamo ad essere così tanti nei gruppi di ricerca all'estero da diventare più numerosi degli autoctoni. In quasi ogni gruppo con cui ho collaborato (pochi in Italia) c'è almeno un italiano. Conosco personalmente un gruppo a Londra di una decina di persone che fino a qualche tempo fa era formato esclusivamente da italiani, dal capo fino all'ultimo studente. Inutile dire che questa diaspora scientifica mette le basi per il futuro declino italiano, ma questo è un altro discorso, che magari val la pena approfondire in un altro post. 

Torniamo all'articolo del Fatto. Considerando il disastro, uno si aspetterebbe dall’autore, un docente prossimo alla pensione (o già pensionato, non si capisce), oltre alla doverosa denuncia della situazione attuale, qualche indicazione per rifondare il sistema, adattarlo alla mancanza di fondi contingente, allocando al meglio le poche risorse disponibili, soprattutto per quanto riguarda reclutamento e avanzamento di carriera. Non proprio. L'autore se la prende con gli "estensivi e vessatori obblighi di rendicontazione delle nostre attività, imposti da una inutile burocrazia ministeriale e dall’Agenzia di valutazione Anvur", e considera "deplorevole che l’anzianità di servizio in un laboratorio di ricerca pubblico in Italia non sia un merito valutabile", perché così "l’inizio della carriera universitaria privilegi persone che si sono formate all’estero, in condizioni molto più favorevoli di quelle vigenti in Italia". Ora, a chi è familiare con il marcio del sistema universitario italiano queste proposte suoneranno sinistramente familiari. Per capire perché, bisogna sapere che reclutamento e avanzamento di carriera in Italia funzionano diversamente che nel resto del mondo avanzato. Innanzitutto i docenti italiani sono strenuamente restii a permettere a qualcuno di valutare il proprio lavoro. L'Anvur a cui fa riferimento l'autore dell'articolo è stata osteggiata dalla lobby universitaria fin dal momento del suo concepimento, la sua nascita è stata particolarmente travagliata, e la sua crescita boicottata con "scioperi della valutazione", in cui i professori si rifiutavano di valutare i loro esimi colleghi. Non che l'Anvur sia perfetta, anzi: per un'opinione (molto) parziale dei suoi tanti difetti, aprite un articolo a caso della pagina ROARS. Ma l'ottimo è nemico del buono, e una valutazione oggettiva, per quanto imperfetta, sarà sempre meglio di nessuna valutazione. Invece niente, l'Anvur è vista ancora oggi come la più indigesta delle ingerenze ministeriali nella preziosa autonomia universitaria. Insomma, nessuno si permetta di dire (dopo averlo valutato, si badi bene) che un dipartimento è scarso e quindi si può sottofinanziarlo (oppure - orrore - chiuderlo), a vantaggio di altri dipartimenti eccellenti. Meglio una distribuzione delle scarse risorse disponibili a pioggia, e i migliori, se non apprezzano questo metodo, se ne vadano pure. 

Ma sono le affermazioni sul reclutamento a mandarmi in bestia. Come si permettono di voler inserire il merito come requisito per il reclutamento? Da sempre infatti, in Italia, il reclutamento è l'arma più potente dei baroni. In pratica funziona così. Fin dal suo ingresso nel mondo accademico, al giovane studente di dottorato sarà messo in chiaro un semplice concetto: se te ne vai, se abbandoni il tuo mentore e il dipartimento che ti ha formato, per te non ci sarà più posto in futuro. Esattamente il contrario della "best practice" nel mondo accademico sviluppato: in alcuni casi, addirittura, non è permesso entrare in ruolo (cioè ottenere la "tenure") nella stessa Università dove si è ottenuto il dottorato. Perché? Semplice: per assicurare che il candidato professore sviluppi esperienza internazionale, in diversi gruppi di ricerca, lasciandosi "contagiare" da idee, metodi e tecniche diverse, e formandosi in ultima istanza come scienziato indipendente. E anche per evitare che il candidato sia "troppo familiare" con coloro che devono valutarlo per decidere se assumerlo o meno, con il rischio di una scelta non motivata di criteri oggettivi. Logico, no? Invece in Italia spesso il consiglio è l'opposto: scegliti un capo potente, diventa il suo schiavo, e aspetta il tuo turno. Per chi accetta, la carriera universitaria può diventare un  calvario, fatto di contratti a termine che non si sa mai se verranno rinnovati. Ovviamente restare sempre sotto lo stesso barone implica che questo abbia potere di vita e di morte sulla tua carriera, dover accettare tutto, magari anche lavorare gratis, mentre aspetti "il tuo momento". E quando arriva questo momento? Quando il dipartimento bandisce un posto su cui il capo ha potere di scegliere il vincitore, secondo la ben nota logica di spartizione dei posti disponibili con gli altri baroni: oggi a me, domani a te. Quando il benedetto concorso arriva, ecco che magicamente vincono candidati interni, anche se hanno curricula spaventosamente inferiori a candidati che vengono da fuori: i famosi concorsi truccati. Non c'è da stupirsi che questi candidati interni abbiano curricula non eccelsi, con poche pubblicazioni, zero esperienza internazionale, nessun progetto di ricerca vinto (perché ovviamente tutto va a nome del barone, anche se hanno fatto loro tutto il lavoro). Ecco da dove viene l'idea dell’autore dell’articolo del Fatto di inserire come criterio l'anzianità di servizio in un laboratorio di ricerca (ovviamente, in Italia!). Questi anni passati da schiavo alle mie dipendenze glieli vorremo far contare in qualche modo? Sennò come faccio a far vincere il mio candidato rispetto agli altri oggettivamente migliori in arrivo da fuori? Capita spesso che i giovani cedano al ricatto implicito, anche perché diciamocelo, spostarsi continuamente in giro per il mondo è una gran rottura di scatole. 

Discaimer: la storia raccontata fino ad ora è ovviamente una generalizzazione del sistema universitario italiano. Ci sono tanti dipartimenti eccellenti, che seguono le migliori pratiche di reclutamento e dove il merito è la principale condizione per fare carriera. Credo che la maggioranza dei professori sia in buona fede, e non si pieghi alle logiche baronali che potrebbe esercitare. Però il marcio descritto esiste, ognuno di noi ha mille aneddoti da raccontare a riguardo, e se non esistesse i casi eclatanti sui giornali non verrebbero fuori. Disclaimer ancora più importante: non è che chi se n'è andato dall'Italia per far carriera è furbo e tutti quelli rimasti son bischeri (scusate, ogni tanto il toscano mi prende), o peggio, collusi con il sistema. Chi è restato e porta avanti la propria carriera accademica tra mille difficoltà e magari mancanza di prospettive, ha tutto il mio rispetto e anche, in parte, ammirazione per lo spirito di sacrificio. Non si tratta di farsi la guerra tra poveri, per spartirsi le poche risorse disponibili. Per rimediare al disastro attuale, la prima misura da prendere è tornare a finanziare adeguatamente il sistema universitario, punto. Pero' questa misura non può essere l'unica. Bisogna riconoscere che il sistema com'è adesso non funziona e va riprogettato, almeno in parte. La mancanza di politiche di reclutamento basate sul merito, trasparenti e con una programmazione a lungo termine, infatti, genera incentivi perversi al lavoro precario. L'idea di "aspettare il proprio turno" all'ombra del barone, unita alla scarsità di risorse, ha finito per produrre un esercito di precari che si sentono, giustamente dal loro punto di vista, traditi dal sistema. Bisogna stare attenti però che la cura non aggravi il malato. La legge Madia del 2016 per la stabilizzazione dei precari, ad esempio, se da una parte è giusta perché riconosce il diritto di migliaia di ricercatori in attesa da tanti anni, dall'altra incentiva essa stessa ad intraprendere una carriera precaria, nella speranza di una qualche sanatoria, prima o poi. Esemplare in questo senso è la risposta dell'INFN, che si è rifiutato di adempiere agli obblighi di legge, giustificandosi con la mancanza di uno stanziamento adeguato ad hoc per la stabilizzazione, cioè rifiutandosi di creare un canale privilegiato per l'entrata in ruolo dei precari storici. Ovviamente i sindacati non hanno apprezzato il gesto, e non c'è da stupirsi: come organizzazione corporativa, fanno gli interessi dei propri iscritti. Ma chi protegge gli interessi degli altri, dei ricercatori che non fanno parte di questi precari storici, e che hanno evidentemente gli stessi diritti di entrare in ruolo, a parità di curriculum? Perché vale la pena ricordare che le risorse non sono infinite, per ogni posto bandito ci sono decine o centinaia di candidati, e la scelta di favorire alcuni (ad esempio i precari storici) automaticamente esclude gli altri.

Insomma, il merito e la valutazione devono essere elementi imprescindibili del sistema di reclutamento e avanzamento di carriera nell'Universita' italiana. Il reclutamento va pianificato con lungimiranza, sfuggendo alla tentazione di sanatorie tampone che peggiorano la situazione nel lungo termine. Va coniugata la necessità di trovare una soluzione per il precariato storico della ricerca con quella di non incentivarne l'incremento. Far contare il merito non significa che per ogni decisione si debba ricorrere a una commissione nazionale. Nel mondo anglosassone, e in particolare negli Stati Uniti, vige il principio dell'autonomia associata all'assunzione di responsabilità. In pratica, i fondi per la ricerca sono assegnati esclusivamente sulla base del merito del gruppo. Dopo, i vincitori hanno totale autonomia decisionale sulla spesa, potendo reclutare per il progetto i profili che ritengono più adeguati, senza dover sottostare a nessun "equilibrio di dipartimento". Parentopoli anche in USA quindi? Manco per sogno, perché se al prossimo round di valutazione i risultati son scarsi, al gruppo non vengono più assegnati fondi, e magari il capo viene licenziato. Insomma, come capo di un gruppo, puoi assumere anche tutti i tuoi cugini, ma è nel tuo stesso interesse che siano bravi e facciano un buon lavoro, altrimenti sei finito. Mi piacerebbe che questi principi, autonomia e responsabilità, venissero implementati nel sistema italiano. La prima è realizzata solo sulla carta, perché spesso i gruppi di ricerca devono piegarsi a burocrazia (è necessario pubblicare un bando per qualsiasi cosa) ed equilibri di potere tra i dipartimenti. Alla responsabilità, che deve passare per un'apertura alla valutazione oggettiva, gli accademici italiani sono piuttosto sordi. Anche se forse qualcosa, dopo tanto tempo, si sta muovendo. Speriamo sia l’inizio di un ripensamento profondo del sistema, e non solo un’occasione per l’ennesimo ricorso, tipico vizio italiano (il prossimo post tocca al mitico Tar del Lazio!).

Per finire, si parla tanto di fuga dei cervelli, quando il vero problema non sono i cervelli che se ne vanno, ma quelli che non arrivano. I cervelli, proprio perché cervelli e non sassi, si muovono seguendo le proprie passioni, cercando l'ambiente più fertile per sviluppare le proprie idee. Basta guardare alle statistiche sulle destinazioni scelte dai vincitori di una ERC, il più importante fondo di finanziamento per la ricerca dell'UE, per deprimersi. Il saldo tra italiani che scelgono destinazioni fuori dall'Italia e non-italiani che scelgono come destinazione l'Italia e' imbarazzante. È da lì che bisognerebbe ripartire: come rendere attraente il sistema universitario italiano, per portare in Italia i migliori talenti in giro per il mondo. Anche se questo comporta scontentare qualche barone che si crede l'ultimo difensore dell'Università pubblica, e invece vuole mettere le basi per il suo definitivo affondamento. Insomma, meno articoli sulla distruzione, devastazione, saccheggio dell'Università pubblica, e iniziamo a parlare di come ricostruirla, come renderla attraente e competitiva, come farla diventare un motivo d'orgoglio e non un luogo dal quale scappare. Se non ci pensiamo noi che siamo i giovani "cervelli", in fuga o meno, chi ci deve pensare?


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